ABORTION SAVES LIVES. VIAGGIO INTORNO AL (NON) DIRITTO ALL’ABORTO
Tavola rotonda internazionale
29 settembre 2024 | Spazio Autogestito Grizzly | Fano (PU)
Abstract: l’accesso all’aborto rappresenta una problematica globale che trascende i confini italiani. Nonostante la criminalizzazione dell’aborto in molti paesi, la pratica continua ad essere una realtà, spesso in condizioni pericolose e precarie, aggravata dallo stigma sociale che costringe molte donne all’isolamento. L’attivismo per i diritti riproduttivi si concentra sull’importanza di garantire un accesso sicuro e libero all’aborto, enfatizzando la necessità di eliminare l’obiezione di coscienza all’interno delle strutture sanitarie pubbliche. La trasformazione culturale è una via urgente da percorrere per il superamento dei tabù associati all’aborto verso l’autodeterminazione femminile. Il documento indaga e propone strategie per affrontare le sfide attuali nell’ambito dei diritti riproduttivi.
IL CASO ITALIANO: MOLTO PIÙ DI 194
Sisters on the Block (Anastasia Curzi)
In Italia, l’accesso all’aborto è regolato dalla Legge 194, una norma nata dalle lotte portate avanti dai movimenti femministi negli anni Settanta. Questo traguardo, raggiunto insieme ad altre vittorie fondamentali come l’abolizione del delitto d’onore (1981), rappresenta una pietra miliare nella tutela dei diritti delle donne.
La Legge 194, entrata in vigore nel 1978, limita l’aborto solo a specifiche circostanze sfavorevoli (fisiche, psichiche, socio-economiche). Prima della sua approvazione, sia le donne che ricorrono all’interruzione di gravidanza che i medici che la praticavano rischiano sanzioni penali (Codice Rocco). Tuttavia, è importante sottolineare che la 194 non liberalizza completamente l’aborto, ma lo inquadra in un contesto di compromesso tra le diverse posizioni politiche dell’epoca di stampo democristiano. La legge non si basa sul principio di
autodeterminazione delle donne, né riconosce esplicitamente i diritti riproduttivi, ma piuttosto tutela i diritti del/della nascituro/a.
Uno degli aspetti più controversi della Legge 194 è il presupposto che la donna, nel momento in cui si rivolge ai consultori per richiedere un’interruzione di gravidanza, non sia pienamente consapevole della sua scelta. Ne è un esempio il periodo di riflessione di sette giorni imposto dalla legge (art. 5), il quale mette in dubbio la capacità di autodeterminazione delle donne, presupponendo che abbiano bisogno di ulteriori consigli prima di procedere.
Questo apre la porta all’ingresso di organizzazioni pro-vita nei consultori, rendendo il percorso verso l’aborto ancora più complesso e oneroso per chi vi si rivolge.
Un’altra criticità importante è legata al fenomeno dell’obiezione di coscienza, che la legge prevede solo per specifici ruoli sanitari. Tuttavia, nella pratica, questo diritto viene spesso appropriato da figure che non dovrebbero averne la possibilità, come i farmacisti che si rifiutano di vendere contraccettivi d’emergenza. Ancora più preoccupante è il fatto che l’obiezione di coscienza venga applicata in intere strutture sanitarie. In alcune aree del Paese, i tassi di obiezione sono così alti che l’accesso al servizio di interruzione volontaria di gravidanza è fortemente limitato.
Nel 2020, sono state emanate delle nuove linee guida dal Ministero della Salute per rendere più accessibile l’aborto farmacologico, permettendo alle donne di accedervi fino alla nona settimana di gravidanza con la possibilità di somministrare la pillola abortiva anche nei consultori e in strutture ambulatoriali. Tuttavia, la risposta delle regioni italiane è stata disomogenea: in alcune realtà, come le Marche, queste linee guida non sono state ancora adottate e l’aborto farmacologico è limitato alle prime sette settimane di gestazione. Ciò
dimostra come, in Italia, l’accesso all’aborto non sia uguale in tutte le regioni, creando forti disparità territoriali.
Nelle Marche, ad esempio, il problema dell’obiezione di coscienza è particolarmente grave: in ospedali come quelli di Fermo e Jesi, il tasso di obiezione raggiunge il 100%, mentre in altre strutture (Fano, Senigallia, Osimo) si aggira tra l’80 e il 90%. Questo significa che molte donne sono costrette a spostarsi in altre province o persino in altre regioni per poter
accedere al servizio di interruzione di gravidanza creando così una forma di discriminazione anche economica. Inoltre, restando in territorio marchigiano, nella maggior parte dei casi, l’ivg avviene ancora tramite il metodo chirurgico, nonostante la presenza di alternative farmacologiche meno invasive.
PER UN ABORTO LIBERO, SICURO E ACCESSIBILE: OLTRE LA BUROCRAZIA E IL TABÙ
Sin dalla sua nascita, il collettivo Sisters on the Block cerca di mobilitarsi con iniziative, momenti di approfondimento (banchetti, guide…) affinché il diritto all’aborto sia libero, gratuito e sicuro senza lungaggini burocratiche o la necessità di doversi spostare dal proprio territorio.
L’intenzione è di eliminare l’obiezione di coscienza dalle strutture sanitarie e dei 7 giorni di riflessione, estendere le linee guida del Ministero per l’aborto farmacologico alla nona settimana a tutte le regioni del territorio italiano. È necessario che i consultori siano laici e liberi da influenze di associazioni pro-life ed è indispensabile che le informazioni su come accedere al servizio siano chiare e di facile reperimento.
Inoltre, il collettivo crede nell’importanza dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole e della contraccezione gratuita, compresa quella d’emergenza.
Ciò che si propone non è solo la riformulazione della legge, ma sostiene un vero
cambiamento culturale. Superare lo stigma che ancora circonda l’aborto è fondamentale, perché non deve essere percepito come una scelta dolorosa o vergognosa. Le donne sono pronte per questo cambiamento, ma i governi non sembrano esserlo. E anche quando sembrano pronti, molti di loro preferiscono non agire. Il cambiamento non può più aspettare, perché il diritto all’aborto sicuro e accessibile riguarda la libertà di scelta e l’autodeterminazione di ogni donna.
LOTTA E REGRESSO: IL DIRITTO ALL’ABORTO IN ARGENTINA TRA VITTORIE E OSTACOLI
Alejandra Ciriza
Il percorso per il diritto all’aborto in America Latina, e in particolare in Argentina, è stato lungo e complesso, molto diverso da quello che ha caratterizzato l’Europa. Le battaglie femministe per l’interruzione volontaria di gravidanza in Argentina hanno preso il via negli anni Ottanta e hanno visto il loro culmine nel 2020 con l’approvazione della Legge 27.210.
Questo risultato è stato reso possibile grazie all’impegno delle attiviste femministe, rappresentate dal simbolico fazzoletto verde (aborto legal, seguro y gratuito), che per decenni hanno lottato per ottenere questo diritto fondamentale.
La Legge 27.210 del 2020 prevede la possibilità di interrompere volontariamente una gravidanza entro la quattordicesima settimana, sancendo così un diritto fondamentale per la salute riproduttiva delle donne argentine. Tuttavia, nonostante l’approvazione di questa legge, persistono ostacoli significativi. Il fenomeno degli obiettori di coscienza, ad esempio, continua a rappresentare una barriera concreta. Sebbene la legge garantisca
formalmente il diritto all’aborto, molte regioni, in particolare quelle più conservatrici come la zona del Rio de La Plata, non applicano pienamente le disposizioni, lasciando molte donne senza accesso al servizio.
Oltre a ciò, la legge tutela anche i casi di rischio per la salute fisica e psicologica della donna, come nei casi di stupro. Prima del 2020, queste eccezioni erano in parte già riconosciute grazie al lavoro delle attiviste femministe che portavano avanti il cosiddetto “soccorso rosa”, un movimento di sostegno che aiutava le donne a esercitare i propri diritti.
Tuttavia, la legge del 2020 ha permesso di estendere questi diritti a tutte le fasce della popolazione, comprese le più vulnerabili, quelle più difficili da raggiungere dalle reti di attiviste.
Con l’elezione di Javier Milei a Presidente dell’Argentina, la situazione per i diritti delle donne si è rapidamente deteriorata. Milei, noto per le sue posizioni misogine e anti-femministe, ha avviato un processo di smantellamento delle istituzioni che tutelano i diritti delle donne. Durante il governo precedente, era stato istituito il Ministero delle Donne, del Genere e delle Diversità, un ente che garantiva politiche e programmi di sostegno per la salute e i diritti riproduttivi. Tuttavia, una delle prime mosse di Milei è stata proprio quella di tagliare questo ministero, eliminando le risorse e licenziando il personale dedicato a garantire l’accesso sicuro e legale all’aborto.
La politica di Milei è apertamente contro il diritto all’aborto, e il suo governo ha iniziato a prendere misure drastiche per ridurre l’accesso a servizi fondamentali per la salute riproduttiva. Un esempio emblematico è la decisione di interrompere l’acquisto di contraccettivi e di farmaci utilizzati per l’interruzione di gravidanza, mettendo a rischio migliaia di donne, soprattutto quelle appartenenti alle classi sociali più basse, che non possono permettersi di accedere a tali servizi privatamente.
Tre anni dopo l’approvazione della Legge 27.210, il governo di Milei ha di fatto svuotato il sistema di garanzie creato per proteggere il diritto all’aborto. La situazione è drammatica: mancano medici e personale sanitario qualificato, le risorse sono state tagliate e tutte le politiche a favore dei diritti riproduttivi sono state gradualmente smantellate. Le attiviste femministe, un tempo centrali nella battaglia per i diritti delle donne, sono state stigmatizzate e ridotte al silenzio, in un clima sempre più ostile verso qualsiasi forma di dissenso.
UNA LOTTA COLLETTIVA
L’Argentina rappresenta un caso emblematico nella lotta per il diritto all’aborto, grazie all’instancabile lavoro delle attiviste femministe. Negli anni, queste attiviste hanno avuto l’opportunità di coinvolgere non solo altre femministe, ma anche molte donne che non erano consapevoli dell’importanza di queste battaglie. Uno degli strumenti chiave per rompere il tabù sull’aborto è stato dare spazio alle testimonianze dirette di chi ha vissuto l’esperienza dell’interruzione di gravidanza, dimostrando che non si tratta di un’eccezione, ma di una realtà condivisa da molte donne.
L’obiettivo non è solo quello di rivendicare un diritto, ma anche creare uno spazio di consapevolezza e solidarietà. Una parte fondamentale di questo percorso è stata la campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito, che ha portato il tema fino alle aule del Congresso argentino, culminando nell’approvazione della legge sull’aborto nel 2020.
Un altro momento cruciale è stata la rinascita del femminismo nel 2015 con il movimento Ni Una Menos, che ha dato una nuova visibilità alle attiviste per i diritti delle donne. Non si trattava più di un piccolo gruppo di militanti, ma di un movimento di massa, con migliaia di donne che riempivano le strade per chiedere giustizia e uguaglianza.
IL METODO FARMACOLOGICO: UNA QUESTIONE DI SALUTE PUBBLICA
Dunia Jelinska
Il 28 settembre 2014 nasce Women Help Women come organizzazione no-profit frutto di un movimento dal basso composto da persone con esperienze dirette nel campo dei diritti riproduttivi, in particolare nell’ambito dell’aborto farmacologico e attive fin dagli anni ’80. I membri di questo movimento si sono impegnati per promuovere e diffondere l’aborto farmacologico, con l’obiettivo di portare il diritto alla scelta nelle mani di chi lo necessita. La missione dell’organizzazione è rendere accessibili le pillole anticoncezionali e del giorno dopo, in particolare nei paesi dove questi diritti vengono negati o fortemente limitati, come ad esempio in Polonia, dove l’aborto è permesso solo in rare circostanze.
Oggi, Women Help Women opera in quattro continenti e gestisce quotidianamente decine di aborti farmacologici a distanza. Oltre a fornire questo supporto, l’organizzazione raccoglie dati preziosi: ogni persona assistita compila questionari medici che permettono di documentare e analizzare un bacino di informazioni considerevole, un contributo fondamentale per la ricerca nel settore.
Negli ultimi anni si è osservato un paradosso: da un lato, la ricerca scientifica ha dimostrato che l’aborto farmacologico, tramite l’uso combinato di due pillole – mifepristone (RU486) e una prostaglandina (misoprostolo o gemeprost) –, è un metodo sicuro, economico e altamente efficace. Queste pillole “magiche” non solo sono in grado di indurre un aborto in modo sicuro, ma possono essere conservate per anni senza particolari precauzioni. Sono anche utilizzate per prevenire emorragie post-parto, dimostrando la loro versatilità e rilevanza nella salute riproduttiva.
Le statistiche confermano che il rischio di complicanze legate all’aborto farmacologico è inferiore al 2%, paragonabile ai rischi di un aborto chirurgico eseguito in ospedale. Eppure, in Italia, l’aborto farmacologico è ancora un argomento trattato poco e spesso in modo inadeguato. Viene oscurato da un dibattito pubblico che lo riduce a una questione etico morale, più che un tema di salute pubblica. Nei paesi di tradizione cristiana, come l’Italia, questo è particolarmente evidente: persino i politici che si dichiarano pro-choice tendono a descrivere l’aborto come un “male necessario”, riflettendo una visione arretrata e lontana dalla realtà.
L’aborto è una realtà comune nella vita di molte persone: una persona su tre con utero, durante la propria vita riproduttiva, interromperà una gravidanza. Tuttavia, questo tema continua a essere accompagnato da stigma e pregiudizi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) afferma che un aborto sicuro è quello praticato da persone adeguatamente formate. In molti contesti, il personale sanitario non è sufficientemente preparato o non applica i protocolli necessari a causa di convinzioni personali o, peggio, per motivi economici.
In Italia, la Legge 194 che regola l’aborto risale a oltre cinquanta anni fa, e risulta ormai inadeguata alle necessità moderne. È come se si volesse curare la tubercolosi con un salasso. È una legge vecchia e superata, che non tiene conto dei progressi tecnologici e medici, e che ostacola il cambiamento strutturale necessario. Il movimento dal basso continua a essere essenziale, proprio come avviene in altre parti del mondo, in particolare in America Latina, dove la lotta per l’aborto farmacologico è partita dalle attiviste in Brasile e Argentina.
Il problema dell’aborto farmacologico non è solo politico. Anche la ginecologia moderna, in molti casi, non vuole perdere il potere e il profitto che derivano dagli interventi chirurgici. La resistenza all’adozione di metodi farmacologici, che evitano la necessità di interventi invasivi, riflette spesso una difesa di interessi economici, più che un’autentica preoccupazione per lasalute delle persone. Questo spiega la presenza di ostacoli come tempi di attesa prolungati,
obblighi di consulenze, e la presenza di associazioni pro-life negli ospedali e nei consultori.
Tutto ciò contribuisce a perpetuare la narrazione che l’aborto sia moralmente sbagliato, riducendo le persone gestanti a semplici “incubatrici” piuttosto che a pazienti con diritti.
LA SORELLANZA NELLA LOTTA PER LA LIBERTÀ DI SCELTA
Ogni giorno, l’organizzazione riceve decine di email da persone che non riescono a trovare assistenza. Lo stigma è presente a tutti i livelli: in alcuni ospedali pubblici, le donne vengono respinte con frasi come “Qui non facciamo queste cose”, come se l’aborto fosse un servizio di second’ordine.
L’organizzazione continua a lavorare senza sosta per difendere e promuovere il diritto all’aborto farmacologico, un diritto che dovrebbe essere garantito ovunque. La salute non è solo l’assenza di malattia, ma un benessere completo della persona, e non si può accettare che politiche obsolete, interessi economici o pregiudizi morali mettano a rischio la vita e la libertà di chi ha bisogno di interrompere una gravidanza.
L’approccio all’accesso all’aborto può prendere due strade: una istituzionale e una di sostegno pratico alle persone. Sul fronte istituzionale, è fondamentale contrastare con fermezza le falsità diffuse dai politici.
La nostra lotta si basa sulla sorellanza e sull’idea che ogni persona abbia diritto a un’esperienza di aborto dignitosa. Come sostenuto anche dall’Organizzazione Nazionale della Salute (OMS), un aborto sicuro e rispettoso non deve necessariamente avvenire in ospedale. Le donne hanno il diritto di scegliere se e come abortire, e con chi affrontare questo percorso.
L’aborto è una realtà della vita, non un evento contro natura. Dobbiamo superare lo stigma che lo circonda e sostenere che sia una scelta personale e legittima, senza giudizi o pregiudizi. Il cambiamento culturale che chiediamo non riguarda solo la legalizzazione dell’aborto, ma anche il riconoscimento della libertà di scelta e della dignità di ogni persona che prende questa decisione.
LETTERA DAL CENTRO AMERICA
Attivista
Sono una femminista centroamericana con oltre tre decenni di esperienza nella difesa e nell’attuazione di programmi per promuovere e garantire i diritti sessuali e riproduttivi. Ho coordinato programmi nazionali e regionali e faccio parte di reti centroamericane impegnate nella loro difesa.
La regione centroamericana è una delle aree dell’America Latina dove i diritti sessuali e riproduttivi vengono maggiormente violati rispetto al resto del continente, e dove si manifestano in modo particolarmente forte le disuguaglianze e le ingiustizie sociali e di genere. Non solo l’aborto volontario è vietato, ma anche quello terapeutico, e sono previste pene per la donna che abortisce e per chiunque le fornisca assistenza. In Honduras, El Salvador e Nicaragua, l’aborto è completamente criminalizzato, persino quando è in pericolo la vita della madre.
Questa restrizione è stata introdotta in Nicaragua nel 2007, in netto contrasto con le richieste delle femministe mentre in Guatemala non esiste. In Costa Rica e Panama, la legge consente l’aborto in alcune circostanze: in Costa Rica, per esempio, è possibile in caso di pericolo o danno alla salute materna, ma non per anomalie fetali; a Panama, è permesso anche in caso di stupro. Tuttavia, l’accesso all’interruzione legale della gravidanza è estremamente difficile, poiché il personale medico, temendo ritorsioni in un contesto di forte ostracismo e stigmatizzazione dell’aborto, ostacola il percorso per ottenere un aborto sicuro e gratuito tramite il servizio pubblico.
Possiamo concludere che vi sono tre paesi (Honduras, Nicaragua ed El Salvador) che non consentono l’aborto in alcun modo, e tre altri paesi (Costa Rica, Panama e Guatemala) dove l’aborto è previsto solo in alcune circostanze, ma l’accesso ai servizi sanitari locali è molto complicato.
Questo è dovuto al fatto che i diritti umani e i diritti delle donne non sono una priorità nelle agende politiche dei governi della regione. Attualmente, la regione è governata da regimi fortemente autoritari e conservatori. Nei casi di El Salvador, Costa Rica, Panama e Nicaragua, le organizzazioni femministe attive nella difesa del diritto delle donne a decidere subiscono pesanti campagne di denigrazione e delegittimazione. In particolare, dopo le gravi crisi politiche in El Salvador e Nicaragua, le organizzazioni femministe sono state messe al bando e le loro leader costrette all’esilio per sfuggire a persecuzioni e salvaguardare la propria libertà. Questo fenomeno è particolarmente evidente in Nicaragua, dopo le grandi rivolte del 2018, represse con la forza e con l’incarcerazione di figure di spicco, anche tra i leader della rivoluzione sandinista.
Di conseguenza, le organizzazioni femministe si trovano in una situazione di vulnerabilità e,in questi due paesi, operano clandestinamente. Continuano il loro attivismo, offrendo sostegno alle donne che desiderano interrompere la gravidanza, rispettando la loro completa libertà di scelta, ma agiscono in modo discreto per evitare denunce, accuse e incarcerazioni. Da sempre, i movimenti femministi più organizzati, come quello nicaraguense, hanno potuto contare su relazioni internazionali.
Tuttavia, è particolarmente importante la rete che collega i sei paesi centroamericani. Le reti nazionali hanno collegamenti a livello subregionale, con l’obiettivo di offrire servizi clandestini ma sicuri per l’interruzione autogestita della gravidanza. A queste reti partecipano, oltre alle femministe, anche personale medico e alcuni leader comunitari.
In alcuni paesi sono attive linee telefoniche, in altri è disponibile un sito web. I medicinali vengono acquisiti dalle organizzazioni della rete grazie a donazioni e offerti alle donne a un costo molto basso oppure, quando non possono contribuire, gratuitamente. Un attivista segue l’intero processo, seguendo un protocollo: dalla somministrazione del farmaco fino al completamento della procedura. In caso di complicazioni, le donne ricevono il supporto di personale medico specializzato. Sono state raggiunte tantissime donne. La verità è che la situazione dell’aborto è cambiata radicalmente con l’accesso ai farmaci, in particolare al misoprostolo. Le attiviste ricevono una formazione e si aggiornano regolarmente, incontrandosi sia di persona sia virtualmente per confrontarsi sulle loro esperienze e discutere su come evitare le complicanze mediche.
Fino a questo momento, tuttavia, non sono state segnalate conseguenze fisiche, decessi o complicazioni gravi legate all’uso del farmaco, se somministrato secondo questo protocollo, che è molto sicuro e offre un valido supporto alle donne, le quali si sentono seguite professionalmente, anche quando affrontano l’aborto da sole.
La sfida più grande per noi, al momento, è raggiungere le donne che vivono nelle zone più isolate (senza corrente, senza internet e senza contatti) e in condizioni di marginalità e vulnerabilità. Infatti,riusciamo prevalentemente a raggiungere donne già informate, che sanno che abortire è un loro diritto, che conoscono la rete o hanno contatti con qualcuno che ne è a conoscenza. Quello che posso dirvi è che tutte le donne che ci contattano vengono prese in carico,ricevono i farmaci in modo tempestivo e adeguato, e sono seguite dall’inizio alla fine del percorso. Va inoltre aggiunto che il misoprostolo, essendo usato anche per disturbi gastrointestinali, si può reperire in farmacia, anche se la rete preferisce distribuire il farmaco attraverso i propri canali.
Non si conoscono i dati esatti sul numero di interruzioni di gravidanza seguite dalla rete,poiché vengono mantenuti segreti e utilizzati principalmente per scopi interni. I dati ufficiali dei singoli paesi che ho consultato per una ricerca non “segnalano” casi di morte materna come conseguenza di un aborto. Credo che questo sia dovuto all’uso del misoprostolo, un farmaco accessibile che previene le infezioni ed è facile da gestire.
Tuttavia, si può supporre che, nei settori più poveri dei paesi dove le donne vivono in condizioni di vulnerabilità, l’aborto non sicuro continui a verificarsi. Questo accade perché l’aborto resta un argomento tabù, di cui non si parla, e non viene trattato né dai media alternativi né da quelli ufficiali, se non in caso di notizie scandalistiche.
El Salvador è il paese che ha mostrato, più di altri, un’attitudine fortemente aggressiva,adottando misure drastiche e drammatiche nei confronti delle donne che praticano o sono solo sospettate di aver praticato un’interruzione di gravidanza.In passato, in El Salvador, le donne che optavano per l’interruzione della gravidanza o che affrontavano un’emergenza ostetrica venivano segnalate da familiari, leader della comunità o anche dal personale sanitario, e punite con condanne fino a oltre 30 anni di carcere.
Tuttavia, le organizzazioni femministe sono riuscite a liberare, dal 2008 ad oggi, 73 donne condannate per questo reato, grazie a una grande campagna che ha raggiunto la massima intensità negli anni 2007-2008. Solo due donne condannate a oltre 30 anni sono ancora in carcere. Un gran numero di queste 73 donne rilasciate aveva avuto un’emergenza ostetrica,un parto prematuro o non sapeva nemmeno di essere incinta. In alcuni casi, sono andate in bagno, in una latrina, e lì è avvenuto il distacco.
Il prodotto abortivo veniva testato, e se si scopriva che aveva respirato, le autorità cambiavano la tipologia di reato: la donna, invece di essere accusata di aborto, veniva accusata di parricidio, subendo un aumento di pena [si noti che il termine “parricidio” in italiano ha il significato di omicidio di un proprio discendente di sangue, e viene considerato soprattutto una sottrazione di una proprietà attraverso la discendenza a qualcosa che appartiene al maschio]. Erano prese di mira soprattutto donne spesso analfabete che vivevano in povertà e in situazioni di vulnerabilità, e si trattava di un vero e proprio accanimento nei loro confronti.L’organizzazione delle donne, insieme ad esperti internazionali e grazie a diverse prove scientifiche, è riuscita a dimostrare la crudeltà e la falsità degli argomenti utilizzati contro di loro. Non è stata una lotta delle sole femministe, ma un’alleanza con alcuni attori chiave, come personale medico e giuristi, il che ha avuto un grande valore strategico. Si è formato un Gruppo di Cittadini per la depenalizzazione dell’aborto. Le innumerevoli iniziative e azioni hanno avuto un impatto molto positivo sul cambiamento di mentalità riguardo all’aborto sia nella società medica che nella società salvadoregna in generale.
El Salvador ha attirato l’attenzione del mondo. Oggi non abbiamo più casi di denunce [contro le donne]; un gran numero di detenute è stato rilasciato e la polizia è meno solerte nel riempire le carceri femminili con donne accusate di aborto volontario. Attualmente, lo Stato è stato denunciato davanti alla Corte di giustizia interamericana per una donna di nome Beatriz: le è stato negato l’aborto terapeutico e alla fine è morta. Si chiede che la sua famiglia venga risarcita.
Al momento, purtroppo, l’alleanza tra femministe, giuristi e personale sanitario si sta sfaldando, poiché la situazione politica è precipitata e il nuovo governo di El Salvador ha introdotto lo stato di emergenza. Parlare apertamente di aborto può essere considerato promozione di un crimine.
Se in El Salvador la persecuzione è rivolta contro le donne, in Nicaragua è diretta contro le organizzazioni femministe. Questo è il risultato di un particolare rapporto tra le organizzazioni femministe e il governo, frutto di una vecchia diatriba tra le femministe e la coppia presidenziale [Daniel Ortega e Rosario Murillo]. Tale conflitto è dovuto principalmente al risentimento di lunga data della first lady per non essere riuscita a guidare nessuna iniziativa femminista o organizzazione femminile dagli anni ’80 (nemmeno quella del suo partito). Questo risentimento ha raggiunto l’apice nel 1998, quando le organizzazioni femministe hanno creduto, sostenuto e dato manforte alla denuncia di sua figlia Zoilamérica, che ha accusato suo marito e patrigno di stupro. In questa circostanza, il fronte sandinista ha dichiarato guerra a tutte le organizzazioni femminili.
La ritorsione nei loro confronti si è realizzata durante la cruenta repressione del 2018, che è iniziata proprio con la cancellazione del 100% delle organizzazioni delle donne, a cui è stato tolto lo status giuridico. È stato inoltre gettato discredito su di loro attraverso campagne diffamatorie e di demonizzazione, con un attuato controllo poliziesco sulle attiviste. Il governo del Nicaragua si dichiara cristiano e solidale, contro l’aborto, e perseguita molto duramente le organizzazioni delle donne che, seppur con difficoltà, continuano il loro lavoro nella clandestinità.
In Honduras c’è stata una certa alleanza tra le organizzazioni femminili e il governo di Xiomara Castro, che, nonostante i risultati limitati, ha permesso l’introduzione della contraccezione d’emergenza, poiché era l’unico paese dell’America centrale in cui fosse vietata. Non si registrano, però, attacchi brutali o scontri con i funzionari pubblici. Anche nel caso di Costa Rica e Panama non vengono segnalati attacchi frontali, ma c’è anche poca ricettività da parte dei governi verso l’agenda femminista.
Nel caso del Guatemala, siamo in una fase d’attesa. Il governo di sinistra appena eletto si trova in gravi difficoltà, poiché deve difendersi dagli attacchi degli altri poteri dello Stato che cercano di delegittimarlo e detronizzarlo. Pertanto, direi che la situazione non è incoraggiante, poiché il governo non ha la forza per apportare cambiamenti significativi in una questione così culturalmente e politicamente rilevante.
Non sempre il mondo cattolico si presenta come ostacolo: segnalo la presenza dell’organizzazione latinoamericana Cattoliche per il Diritto di Decidere, che ha concentrato il suo lavoro sulla critica della concezione dell’aborto come peccato e ha uno sguardo diverso rispetto all’ortodossia religiosa sulla questione delle donne. È importante questo lavoro perché, come loro stessi hanno registrato, la maggior parte delle donne che abortiscono è cattolica.
Le organizzazioni femminili stanno lavorando con molte difficoltà in tutti i paesi dell’America Centrale e richiedono sostegno internazionale. La forza di queste organizzazioni risiede nella loro lunga storia di lotta contro governi storicamente molto autoritari; pertanto, hanno una vasta esperienza nel lavorare dalla clandestinità, conoscendo le misure di sicurezza necessarie per proteggere la loro vita, la loro libertà e la loro causa.
Sebbene io ritenga fondamentale la stretta collaborazione tra i sei paesi centroamericani, che presentano tra loro una certa affinità, non si deve sottovalutare l’importanza della collaborazione con la rete femminista messicana (che è un altro mondo). Ad esempio, il protocollo utilizzato in America Centrale proviene da esperienze messicane, testate condonne migranti provenienti da tutte le parti dell’America Latina, che stavano attraversando i confini.
Importante è l’organizzazione di rete: La Sombrilla Centroamericana, che sta monitorando il rispetto dei diritti sessuali e riproduttivi nei sei paesi.
Se devo indicare una strategia di successo, è il collegamento tra il personale medico e le organizzazioni femminili, che ha avuto molto successo in Nicaragua e straordinario in El Salvador, mentre è stato relativo in Guatemala. Invece, in Honduras, Costa Rica e Panama non c’è stato molto successo. La posizione della scienza tende a orientare i politici verso decisioni molto più favorevoli.
L’ATTIVISMO PER L’ABORTO IN POLONIA
Justyna Wydrzynska
In Polonia, il diritto all’aborto è praticamente inesistente, nonostante migliaia di persone ne abbiano bisogno ogni anno. Il supporto a questo diritto è portato avanti quasi esclusivamente da organizzazioni attiviste, tra cui l’Aborcyjny Dream Team, che svolge un ruolo centrale nel garantire assistenza e informazione. Secondo i dati dell’organizzazione, circa 40.000 persone ogni anno ricorrono all’aborto attraverso l’uso di pillole abortive o viaggiando in Germania, dove il servizio è legale e accessibile.
Grazie alle reti attiviste, le persone interessate vengono informate su come ottenere insicurezza le pillole abortive, evitando i rischi del mercato nero. Le attiviste forniscono anche supporto durante l’aborto, offrendo un aiuto concreto e fondamentale in un contesto in cui il mondo della ginecologia polacca si rifiuta di eseguire aborti. Questo accade anche nei rari casi in cui la legge polacca garantirebbe il diritto all’interruzione di gravidanza.
La maggior parte dei ginecologi polacchi è profondamente contraria all’aborto, e questa opposizione è radicata nel sistema culturale del Paese. Dal 1993, anno in cui l’aborto è stato sostanzialmente proibito, i medici non ricevono più la formazione necessaria per eseguire queste procedure. Nei casi di aborti tardivi, alcuni professionisti propongono addirittura un parto cesareo, mostrando una grave mancanza di preparazione e comprensione delle pratiche mediche appropriate.
COSTRUIRE CONSAPEVOLEZZA
In un contesto così delineato, l’aborto è affidato quasi interamente alle mani delle attiviste. Nonostante la recente ascesa al potere di un governo di centrosinistra, la situazione non è cambiata. I politici, anche quelli considerati più progressisti, si limitano a fare dichiarazioni vuote e superficiali, che non affrontano concretamente la questione. Contrastare queste affermazioni con risposte decise è essenziale per stabilire una narrazione scientifica e corretta sull’aborto. Ogni volta che queste falsità vengono smontate, una parte della società polacca inizia a prendere coscienza della realtà, comprendendo che dall’altra parte ci sono solo opinioni prive di fondamento.
Le attiviste utilizzano anche i media per raccontare i metodi sicuri e corretti per ottenere un aborto, cercando di combattere la demonizzazione del tema. Grazie alle testimonianze di chi ha vissuto in prima persona l’esperienza, si cerca di normalizzare la conversazione sull’aborto e di abbattere i tabù. Costruire una relazione di fiducia con i media richiede tempo, ma è un passo fondamentale per diffondere una narrativa basata su fatti e non su pregiudizi.
La forza del movimento per il diritto all’aborto in Polonia risiede soprattutto nelle sue relazioni. Le attiviste possono contare su altre organizzazioni che, pur non occupandosi direttamente di diritti riproduttivi, condividono gli stessi ideali di equità e libertà. L’unità del movimento è il suo punto di forza e permette di resistere e avanzare, anche in un contesto così difficile.
CONSIDERAZIONI FINALI
Dalle testimonianze emerse durante la tavola rotonda, è chiaro che la situazione italiana non rappresenta un caso isolato, ma si inserisce in una preoccupante tendenza globale, come evidenziano i dati forniti dalle numerose attiviste impegnate quotidianamente nella difesa di questo diritto. Le testimonianze dimostrano una condizione condivisa in molte altre realtà e incrociando le storie di attivismo per i diritti riproduttivi emergono due aspetti.
Anzitutto, è una certezza che l’aborto continuerà a essere praticato, indipendentemente dalla sua criminalizzazione. Le persone non smetteranno di ricorrervi, anche a rischio della propria vita e salute, pur di esercitare il proprio diritto di autodeterminazione, nonostante la pericolosità legata, ad esempio, alla clandestinità o a metodi di fortuna.
L’altra tendenza riguarda le difficoltà che le persone incontrano quando cercano di accedere all’aborto. In alcune aree del mondo, il diritto all’interruzione di gravidanza viene completamente negato, mentre in altre è sulla carta garantito ma ostacolato in ogni modo.Le barriere da abbattere sono numerose: dall’obiezione di coscienza alla negazione o al taglio dei servizi, fino al mancato utilizzo delle più recenti innovazioni mediche (pillola abortiva) affinché si salvaguardi un sistema di profitto economico.Il tratto che accomuna tutti i Paesi, tuttavia, è lo stigma. L’aborto resta un tabù culturale di cui non si deve parlare apertamente e che costringe molte donne a vivere questa esperienza spesso in segretezza.
La battaglia centrale che l’attivismo per i diritti riproduttivi si impegna a perseguire è quella di garantire l’accesso libero, gratuito e sicuro all’aborto per tutte le persone che decidono di interrompere la gravidanza. Questo obiettivo non rappresenta solo una questione di diritto,ma di giustizia sociale e di tutela della salute fisica e psicologica.
Affinché il raggiungimento a questo diritto fondamentale non resti un’utopia ma diventi una solida realtà, è indispensabile eliminare completamente la percentuale di obiettori di coscienza all’interno delle strutture mediche e ospedaliere pubbliche poiché rappresenta una seria minaccia all’autodeterminazione delle persone. Pertanto, è necessario che ospedali, consultori e ambulatori siano spazi laici, liberi da pressioni ideologiche, politiche eda qualsiasi forma di strumentalizzazione etico-morale.
Il cambiamento richiesto non si limita al piano normativo. Al contrario, esso mira a innescare una trasformazione culturale profonda e radicale. Si fa cruciale abbattere lo stigma sociale che ancora circonda l’aborto, affinché non venga percepito come una scelta dolorosa, vergognosa o immorale, ma venga invece riconosciuto come una delle opzioni legittime e rispettabili a disposizione di chiunque voglia decidere del proprio corpo e del proprio futuro.
In un contesto così definito, è auspicabile una liberalizzazione ulteriore dell’aborto che consenta una maggiore autogestione della pratica, promuovendo, ad esempio, l’assunzione sicura delle pillole abortive al di fuori di ambienti medici, accompagnata da un adeguato supporto telematico, tramite consulti telefonici o piattaforme online.
Parallelamente, è fondamentale il ruolo dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole come forma di prevenzione. Questo percorso formativo rappresenta una tappa essenziale per fornire alle giovani generazioni gli strumenti necessari per conoscere il proprio corpo,comprendere la propria salute fisica e psicologica, e fare scelte consapevoli in materia di sessualità. A ciò si aggiunge la necessità di garantire la gratuità ai metodi contraccettivi, compresi quelli d’emergenza, affinché la prevenzione sia un diritto accessibile a tutti e non un privilegio riservato a pochi.
In conclusione, è doveroso sottolineare l’importanza dei movimenti dal basso, che da sempre rappresentano una rete di sicurezza imprescindibile per la diffusione di consapevolezza e informazione a livello territoriale. L’attivismo ha saputo e continua a colmare le lacune e le carenze delle istituzioni politiche diffondendo consapevolezza e informazione attraverso l’organizzazione di mobilitazioni, campagne di sensibilizzazione e iniziative sul tema, promuovendo il diritto universale di decidere liberamente sul proprio corpo. Un diritto che deve essere svincolato da ostacoli di natura economica o morale e che riguarda esclusivamente il benessere completo della persona.
Inoltre, la promozione di una narrazione scientificamente accurata e accessibile sull’aborto è un passo ulteriore per contrastare disinformazione e opinioni infondate che sempre più dominano il dibattito pubblico. Le attiviste e gli attivisti, nella costruzione di un dialogo con i media e il personale medico, sono chiamati ad adottare strategie di comunicazione efficaci che normalizzino l’aborto e superino i tabù e le barrire culturali che ancora oggi gravano sul tema e sulla pelle di tutte e tutti.Sostenere l’autodeterminazione delle persone non significa soltanto tutelare un diritto, ma garantire il rispetto e la dignità di ogni individuo, aggiungendo quel tassello mancante verso una società più giusta.
ALEJANDRA CIRIZA: è attivista femminista e militante per la memoria, la verità, la giustizia e i diritti umani.Filosofa, ricercatrice del CONICET (Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas) e professoressa dell’Università Nazionale di Cuyo.
DUNIA JELINSKA: è attivista di Women Help Women – organizzazione no profit internazionale – dove ricopre il ruolo di coordinatrice operativa per l’Europa, con particolare focus su Polonia e Italia.
JUSTYNA WYDRZYNSKA: è attivista polacca per la difesa dei diritti riproduttivi, fondatrice del gruppo Kobiety w Sieci (Donne della rete), che gestisce Masz wybòr (Hai una scelta) infoline e forum dedicati all’accesso sicuro all’aborto. È stata processata per aver assistito una donna polacca fornendo le pillole abortive. Inoltre, fa parte del gruppo Aborcyjny Dream Team.
ATTIVISTA: è attivista femminista nicaraguense ricercata, coordinatrice di programmi per i dirittiri produttivi e sessuali in Centro America.